Espressione dolente, sguardo nero e illeggibile, piglio da
chiaroveggente. La voce di Pier Paolo Pasolini appare profetica per molti
versi, la voce di un martire che avverte precocemente il peso del supplizio di
vedere troppo lontano.
“La mia è una visione apocalittica”, era lui il primo a
specificarlo, dall’irraggiungibilità della propria statura di eclettico, di
sperimentatore.
Nel 1964, in un articolo pubblicato sulla rivista
“Rinascita”, Pasolini osa trattare, forse con una vena drammatica che noi oggi giudicheremmo
eccessiva, di tecnocrazia, di espressività di massa, di un’ industrializzazione
cancerogena. Osa coniare la definizione di “italiano tecnologico”.
Ma in cosa consiste la profezia, in parte effettivamente
realizzatasi, che Pasolini volle lanciare come un sasso in un lago quietissimo,
pericolosissimo?
L’italiano tecnologico è la conseguenza linguistica dai
risultati conseguiti dall’industrializzazione nel Novecento. È la morte della
letteratura, è il trionfo della tecnicizzazione. È l’istituzione effettiva,
finalmente, di una lingua comune, nazionale, in Italia.
Ma com’è questa lingua che viene elevata a patrimonio
collettivo? È una lingua annerita dai fumi delle industrie sorte lungo il
cosiddetto asse Torino-Milano, come
lo definisce Pasolini, creatura mostruosa della classe egemone prodotta dal progresso
industriale del Nord. L’italiano tecnologico segna anche la vittoria della
comunicazione sull’espressività, attraverso la ripetizione: solo la ripetizione
trasforma l’espressività in comunicazione, e lo sguardo sdegnato, allarmato di
Pasolini si sofferma anche sulla fortuna degli slogan.
Si parla di un principio omologatore, si parla dell’inciampo
del giornalismo e della televisione in una pozza putrida di monotonia e
unificazione stantia.
Un quadro opaco e demoralizzante che si identifica quasi
completamente con la nostra situazione attuale.
In una realtà globalizzata, dozzinale, insipidita dalla
commercializzazione e da una triste prosecuzione dello scientismo, che fine ha
fatto l’italiano che ha reso il nostro paese celebre per il proprio sangue
letterario? Che fine ha fatto quella cultura amatissima e odiatissima per la
cura che riversava nel suo “orticello poetico”?
La cultura del potere
che denunciava Pasolini in risposta al discorso per l’inaugurazione
dell’Autostrada del Sole di Moro, un vessillo della grandezza del potere
economico e industriale del Settentrione, neo-colonizzatore del
trascuratissimo, affamato Mezzogiorno, è la nostra odierna cultura, che
diffonde attraverso una moltitudine di canali, spesso non percepiti, il proprio
principio di omologazione, di annullamento.
La tecnicizzazione del linguaggio è segno di un futuro dal
sapore retrogrado, che si fa le ossa sul massacro della propria storia, dei
propri avi.
La protezione del passato non deve essere percepita come
bloccaggio, ma come conservazione intelligente della propria parte migliore,
delle salde radici di un albero storico che può continuare a crescere splendidamente.
Nessuna soluzione intorno alla lingua deve essere considerata
univoca: lo stesso Pasolini si autodefinisce in piena ricerca e poeta
dilettante. Vuole scrivere poesie
sulla sua esistenza ma inevitabilmente è dilaniato dalla contraddizione di
parlare di sé come in un diario privato o di ergersi a testimone della propria
epoca gravemente ammalata. Pasolini sacrificò l’assolutezza della propria
poesia sull’altare della vita, rinunciò a una fondazione poetica della realtà
per aderire ai suoi moti concreti e imprevedibili.
L’attenzione che riservò alla mutazione antropologica
verificatasi nei suoi anni offre spunti di riflessione validi ancora oggi:
cos’è diventato l’uomo senza letteratura? Attivatore di macchine che non si
limitano ad agevolare il suo lavoro, ma finiscono per succhiare la sua linfa,
la sua indispensabilità?
Il declino della letteratura è il declino dell’umanità. Pasolini
lo sapeva. Il suo ingegno ribelle, innamorato della letteratura e dell’umanità
in ugual modo, non esitava però ad additare i suoi concittadini come
degenerati, mostruosi e criminali. Una diagnosi lucida e meticolosa è
inevitabilmente il primo passo della guarigione. Ma c’è un trattamento proposto
concretamente da Pasolini?
“Far degenerare le ansie dell'acquisto e delle produzione in qualcosa che è la loro purezza e la loro mancanza di funzione, è la parte del poeta.”
Sostanzialmente, nessuno è ancora
giunto a una cura unica o esclusiva. Sostanzialmente, l’obiettivo è continuare
a proporne di nuove e rivoluzionarie.
Duilia Giada Guarino